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Milano, 15 gennaio 2020. Oggi, tra le tante pietre d’inciampo poste in città, in via S. Eufemia 19 è stata posta una pietra nel punto dove si trovava l’abitazione di Antonia Frigerio Conte, che, nata a Cassina de’ Pecchi il 14 dicembre 1904, morì assassinata nel campo di concentramento di Ravensbrück  il 26 marzo 1945.

La pietra d’inciampo. Discorso di presentazione, via S. Eufemia 19

Si pubblica il discorso tenuto da Massimo Castoldi (con informazioni tratte da Giorgio Vitali, Una città nella bufera. Milano 25 luglio 1943-25 aprile 1945, Milano, Mursia, 1980, pp. 174-175, 183), che ricorda anche un luogo di memoria dimenticato della città, lo studio dell’avvocato Luciano Elmo (oggi viale Regina Margherita 30).

Un luogo di memoria, viale Regina Margherita 30, studio Elmo

 

 

 

 

 

 

 

 

Antonia Frigerio era la segretaria dell’avvocato liberale Luciano Elmo. Lo studio di Elmo, posto in viale Regina Margherita 38, oggi 30, era un centro operativo determinante nella lotta militare contro l’occupante nazista, un vero luogo della memoria storica della Milano antifascista, e Antonia necessariamente sapeva tutto e condivideva i principi e i valori della lotta contro il nazifascismo.

Fu arrestata lì, nello studio Elmo il 31 luglio 1944. Si era trattenuta a colazione con l’avvocato. Alle ore 13.00 irruppero i militi fascisti. Sulla sua macchina da scrivere era «il rendiconto di fine mese di tutte le sovvenzioni finanziarie» per le brigate partigiane.

Con lei e l’avvocato furono arrestati Lucilio Salvatore, «che aveva con sé il rilievo del ponte sull’Adda a Pizzighettone da trasmettere agli Alleati per un eventuale bombardamento»; Raffaele Gilardino «che aveva in tasca il piano del campo d’aviazione della Malpensa»; Augusto Cognasso che teneva contatti con i partigiani della valle del Toce; il generale Guglielmo Barbò, che «manteneva i collegamenti con i partigiani dell’Ossola» e altri impegnati nella diffusione della stampa clandestina.

Nello studio Elmo erano anche documenti modificati per consentire a ebrei e militari false identità: timbri tedeschi e fascisti, carte annonarie, libretti di lavoro, «verbali di visita militare all’ospedale di Baggio con licenza di convalescenza, documenti di viaggio».

Tutto questo era nelle mani di Antonia. Furono oltre venti gli arrestati in una catena di arresti che si protrasse per l’intera giornata e per il giorno successivo.

Fu trasferita a San Vittore, a Bolzano il 7 settembre 1944, da dove partì per Ravensbrück.

Tracce di memoria

Il suo nome è scritto, tra i caduti per la libertà, nelle lastre in bronzo poste a Milano sotto la Loggia dei mercanti. Nel 1965 fu posta una lapide in sua memoria sul palazzo dove era andato ad abitare il marito Leone Conte, dopo la Liberazione, in via Val Cismon 4, zona Niguarda. La sua più vicina compagna in tutto il percorso di deportazione, conosciuta per tramite di una suora nel carcere di San Vittore fu Maria Arata Massariello, che a differenza di Antonia riuscì a sopravvivere al campo. Erano nate lo stesso giorno, il 14 dicembre, e Maria di otto anni più giovane (nata nel 1912) così la ricorda nel suo diario Il ponte dei corvi (Milano, Mursia, 1979).

Da Maria Arata Massariello, Il ponte dei corvi:

Il 14 dicembre […] dopo l’inizio avverso del mattino ho il piacere dell’incontro con la cara e mite Antonia Conte, di un affettuoso abbraccio con gli auguri incerti se di vita o di morte per il nostro comune compleanno!

Dopo la pausa […] si riprende il lavoro.

Le mani

Le mani […] sono gonfie e presentano molte crepe tra le dita e sul dorso e spesso sanguinano. Le ferite per la povertà del nostro sangue tendono irrimediabilmente ad allargarsi. Lo slittamento di una gamba contro una traversina di ferro […] mi provoca un piccolo graffio. È questa l’origine di piaghe a non finire. La ferita anziché tendere a rimarginarsi si estende tutt’intorno e dai pori della gamba escono gocce di pus.

Il guasto più appariscente sono le mani sanguinolente. Anche qui intervengono con infinita pietà Erna e Branka che mi pro­curano due pezzi di stoffa in cui avvolgerle. Sarebbe bello poterli cucire a guisa di guaina, ma non è possibile, per cui risolvo il problema annodandoli ai polsi e tenendoli con le dita e l’arnese da lavoro in modo da coprire almeno il dorso della mano. La mia compagna Antonia è purtroppo ancora senza alcun riparo e questo è per me di sofferenza.

Dopo pochi giorni fortunatamente una croata, di cui pur­troppo non ricordo il nome, mi regala un guanto confezionato per cui ho la soddisfazione di poter aiutare la mia cara amica facendole dono dei miei due straccetti per le mani. […]

Il giorno della selezione

Comincia la macabra sfilata. Ogni donna viene osservata dai medici SS che con un gesto accompagnato da una scudisciata ed al grido di «Heraus» (fuori) decidono nella maggior parte dei casi la sua fuoruscita dalla fila. […] Le eliminate sono spinte contro una baracca. Impossibile descrivere lo spettacolo di pietà di questi esseri! Sono per lo più giovani, coperte di ascessi, ulcere, eczemi purulenti, morsicature dei feroci cani di scorta eppure ancora tanto desiderose di vivere. Coscienti del significato della selezione, con le loro ultime forze, chiedono grazia battendo mani e piedi, con urli e scene selvagge e cercando di rientrare nella fila.

Ma il giudizio è inappellabile e con lo scudiscio, tra le sghignazzate delle SS, vengono violentemente ricacciate nel gruppo eliminato. Avanti a me marcia Antonia con la sua testa scheletrica in cui brillano i due occhi nerissimi. Le spalle pia­gate e piene di lividi, i seni svuotati, le gambe fortemente ede­matose con estese piaghe violacee crostose. La sua espressione è quella di un docile agnello spaurito.

Fa tanta tenerezza questa mia cara gentile compagna di martirio ed il grido di «Heraus» che la colpisce mi pietrifica, mi oscura la mente. Rimango immobile davanti agli occhi scru­tatori SS ed il mio atteggiamento indifferente, quasi ostentante il mio stato di demolizione, stupisce il medico SS che, forse, per spirito di contraddizione, nello stupore di tanta mia in­coscienza mi sprona a proseguire nella fila con un brusco «Schnell» e una scudisciata. Guardo con desolazione la mia cara amica di cui riesco ancora a cogliere un ultimo sguardo accorato e i nostri destini si sono divisi per sempre.

La memoria

[…] Il mio pensiero va tristemente ad Antonia Conte che è stata una dolce compagna dal carcere di S. Vittore a Milano. […] Con lei era bello pregare la sera in luridi pagliericci. Il nostro rosario per lo più non arrivava alla fine: lei si inquie­tava, per questo io ero più tranquilla: pensavo che la nostra preghiera avesse sempre valore e potesse salire in alto ugual­mente anche se recitata in un dormiveglia.

E quanta forza trovavamo insieme nel recitare il rosario, a volte anche due, tre rosari prima del sorgere del sole, quando al Thazenberg le nostre braccia incartapecorite e sanguinanti dal freddo intenso nel buio dovevano trasportare pile di mattoni gelati per lunghi tratti!

[…] nella sua debolezza molte volte mi aveva reso forte, capace di superare tante difficoltà, nel desiderio di poterla aiutare. Mi sembrava tanto debole, incapace di resistere all’urto, all’assalto continuo di tante iene, che mi faceva trovare dentro una forza che in realtà non avevo neppure per me, per proteggerla, per tenerla su e darle ancora un po’ di fiducia nell’avvenire.