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TR 1 locandina Tra censura e consenso bis

Titolo: Un corso in Fondazione. Tra censura e consenso. Corso sull’editoria nell’Italia fascista,
Autore: Massimo Castoldi
Numero della rivista: «Triangolo rosso», n. 1-3, gennaio-marzo 2013, pp. 50-51.
TR 2 Invito Convegno 8 settembre1 copy
Titolo: Un Convegno in Fondazione. A settant’anni dall’8 settembre il peso delle responsabilità dell’Italia e della Germania,
Autore: Massimo Castoldi
Numero della rivista: «Triangolo rosso», n. 7-9, ottobre-dicembre 2013, pp. 10-13.
TR 3 Foto Massariello
Titolo: Un ricordo di Giovanna Massariello. Il dovere della testimonianza e il diritto alla ricerca,
Autore: Massimo Castoldi
Numero della rivista: «Triangolo rosso», n. 7-9, ottobre-dicembre 2013, pp. 48-49.
TR 4 Lorenzetti ecc.

TR 4 Palazzo Reale foto 1_24012014

Titolo: Un ricordo di Giovanna Massariello. Il dovere della testimonianza e il diritto alla ricerca,
Autore: Massimo Castoldi
Numero della rivista: «Triangolo rosso», n. 7-9, ottobre-dicembre 2013, pp. 48-49.
Un corso in Fondazione. Tra censura e consenso. Corso sull’editoria nell’Italia fascista
Massimo Castoldi, Un corso in Fondazione. Tra censura e consenso. Corso sull’editoria nell’Italia fascista, «Triangolo rosso», n. 1-3, gennaio-marzo 2013, pp. 50-51.

TR 1 locandina Tra censura e consenso bisPresso la sala conferenze della Fondazione Memoria della Deportazione si è svolto il corso Tra censura e consenso. L’editoria nell’Italia degli anni Trenta e Quaranta, realizzato in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano e l’Istituto Lombardo di Storia Contemporanea e rivolto in particolare a docenti e studenti delle scuole superiori, ma liberamente aperto al pubblico di ogni genere e grado. È l’avvio di un progetto più vasto, che prevede interventi anche nei prossimi anni sull’editoria, sulla pubblicistica e sullo spettacolo in epoca fascista, con particolare attenzione alla realtà milanese e lombarda e con lo scopo di favorire una riflessione più consapevole sul rapporto tra fascismo e cultura.

Nella prima lezione, martedì 9 aprile alle ore 18.00, ho discusso sul tema Federico Garcìa Lorca nell’Italia fascista, tra editori e pubblico. Ho ricostruito, documenti alla mano, le tappe della controversa vicenda della ricezione dell’opera di Lorca nell’Italia fascista, a partire da episodi di controinformazione sulla sua appartenenza politica (ancora nel maggio 1939 il periodico “L’illustrazione italiana” lo definiva il “poeta falangista della nuova Spagna”), e sulle circostanze della sua morte, avvenuta per mano dei nazionalisti spagnoli a Granada nell’agosto 1936, ma attribuita prima a elementi marxisti, poi a criminali comuni o anche a rivalità personali negli ambienti dell’omosessualità. Nel maggio 1939 arrivò forse la prima censura fascista al poeta spagnolo, definito “comunista”, con la proibizione della rappresentazione di Nozze di sangue a Roma per la compagnia di Anton Giulio Bragaglia da parte del Ministero della Cultura Popolare. Ciò non impedì a un editore coraggioso come Ugo Guanda di pubblicarne le Poesie (1940 e 1943) e il dramma Donna Rosita nubile (1943). Risulta da tutte le vicende descritte una certa grossolanità della censura fascista, a volte incapace di cogliere la portata rivoluzionaria della parola lorchiana, ben percepita invece dagli intellettuali antifascisti, a volte invece pronta ad accanirsi contro la produzione del drammaturgo, per esempio con il sequestro dei due volumi guandiani dalla Biblioteca Nazionale di Firenze da parte del neonato governo Badoglio i primi di agosto del 1943.

La seconda lezione è stata tenuta dalla prof. Ada Gigli Marchetti (Università degli Studi di Milano) e dalla dott. Anna Ferrando giovedì 11 aprile sul tema L’industria editoriale in Lombardia negli anni Trenta. Ne è emerso un quadro apparentemente contradditorio tra una forte promozione della produzione libraria operata dal fascismo, almeno fino alla metà degli anni Trenta, e il progressivo affermarsi di rigide strategie di censura, con la delega ai prefetti di vigilare sulla stampa.

Ada Gigli Marchetti ha descritto in particolare le iniziative del fascista Francesco Ciarlantini per la diffusione del libro e per la promozione della lettura popolare, a partire da quando diresse tra 1923 e 1924 l’Ufficio stampa e propaganda e poi durante la sua attività parlamentare. Anna Ferrando ha ripercorso alcuni casi specifici di censura libraria sui documenti conservati tra le carte del Gabinetto Prefettura presso l’Archivio di Stato di Milano: dal controllo sulla letteratura straniera, agli interventi su specifiche espressioni, compresa la sostituzione del “Lei” con “il Voi”, agli elenchi di libri da sequestrare.

Appare evidente che promuovere la lettura non ha significato e non significa, ieri come oggi, promuovere la cultura, e che la censura si sia rivolta con maggiore determinazione alle opere che avevano incidenza sulla gran massa della popolazione: si controllava così più il teatro della poesia, si tralasciava spesso la saggistica, mentre si dedicava estrema attenzione censoria al romanzo popolare.

Le altre due lezioni hanno tracciato un percorso critico sulle controverse vicende di due editori di grande rilevanza storica tra anni Trenta e Quaranta, Ugo Guanda e Valentino Bompiani, entrambi sospesi tra esplicita adesione al fascismo e riconosciuti orientamenti antifascisti.

Martedì 16 aprile la prof. Irene Piazzoni (Università degli Studi di Milano) ha parlato di Editori e fascismo. Il caso di Valentino Bompiani. Bompiani, sempre orientato piuttosto a un’azione civile che direttamente politica, dimostrò per tutti gli anni Trenta una sostanziale adesione alle direttive del regime. Fu nel 1934 l’editore italiano del Mein Kampf di Hitler, che sarebbe stato ristampato con successo, anche dopo il 1945. Scorrendo il suo catalogo, troviamo anche opere di orientamento meno definito come la collana dei libri d’acciaio per la gioventù, che coniugano una matrice futurista con l’intento formativo volto a stimolare la conoscenza della realtà. Esiste inoltre un altro Bompiani, editore, soprattutto per quanto riguarda la narrativa, di scrittori di evidente orientamento antifascista, come Brancati, Vittorini, Alvaro, Moravia. È il Bompiani che collabora con Vittorini, che pubblica Nozze di sangue di Garcìa Lorca, traduce e pubblica gli scrittori americani, affida al filosofo Antonio Banfi la direzione della celebre collana «Idee Nuove», favorendo un orientamento culturale capace di andare ben oltre l’idealismo di Croce e Gentile.

Anche per Ugo Guanda, come per Bompiani, l’intuito editoriale finisce per prevalere su un’esplicita presa di posizione contro il regime. Ne ha trattato giovedì 18 aprile il prof. Giorgio Montecchi (Università degli Studi di Milano) nel suo contributo Un editore tra fascismo e antifascismo: Ugo Guanda. Nacque come editore fascista: il suo primo libro fu Il santo manganello. Romanzo dello squadrismo di Andrea Anghinoni, pubblicato nel 1932 a Modena con la sigla editoriale AFIL. Lavorava per i sindacati fascisti, scriveva, esaltando il fascismo, su riviste modenesi come «La valanga», anche se si dimostrava spesso polemico contro il fascismo degli industriali e degli agrari. Scelse definitivamente la via dell’editoria, proprio quando venne licenziato dai sindacati fascisti, per incompatibilità con gli organi direttivi locali, avviando un lento e complesso processo di ripensamento sulla politica ufficiale del regime, che divenne più evidente, quando, passando da Modena a Parma, incontrò intellettuali come Bertolucci, Bo, Luzi e Macrì. Il suo catalogo cambiò lentamente, anche se Guanda non giunse mai a schierarsi apertamente per posizioni antifasciste. Fu anche la sua piena adesione giovanile al fascismo a consentirgli quella spesso disinvolta interazione con la censura, che gli permise di pubblicare, senza conseguenze, nel 1940 le poesie di Federico Garcìa Lorca.

Il corso, che ha visto la partecipazione di un pubblico non molto numeroso, ma composto prevalentemente di giovani studenti, si è chiuso con l’auspicio di futuri approfondimenti su queste tematiche, nella convinzione dell’opportunità di meglio comprendere i rapporti complessi tra fascismo, antifascismo e cultura.

Un Convegno in Fondazione. A settant’anni dall’8 settembre il peso delle responsabilità dell’Italia e della Germania
Massimo Castoldi, Un Convegno in Fondazione. A settant’anni dall’8 settembre il peso delle responsabilità dell’Italia e della Germania, «Triangolo rosso», n. 7-9, ottobre-dicembre 2013, pp. 10-13.

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Nei giorni 18 e 19 ottobre 2013 si è svolto presso la Fondazione Memoria della Deportazione un convegno internazionale sul tema Settant’anni dall’8 settembre. Per la costruzione di una memoria europea. Il peso delle responsabilità storiche di Italia e Germania, con lo scopo di impegnare storici italiani e tedeschi nella «ricerca autocritica di punti di convergenza» e nell’elaborazione di una «memoria attiva e condivisa nello spazio della nuova Europa». Era presente un pubblico numeroso ed eterogeneo, all’interno del quale si riconoscevano alcuni giovani, anche studenti delle scuole superiori.

Dopo una breve introduzione di Ionne Biffi, membro del Consiglio di amministrazione della Fondazione e figlia di Angelo, morto a Gusen, che ha giustificato l’assenza del Presidente Gianfranco Maris e della Vice-Presidente Giovanna Massariello e ne ha letto i messaggi di partecipazione, accanto a quelli del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, della presidente della Camera dei Deputati Laura Boldrini e del Presidente dell’ANPI nazionale Carlo Smuraglia, e dopo una mia breve presentazione della Fondazione stessa nel ricordo di Aldo e Pina Ravelli, ha preso la parola l’assessore del Comune di Milano Franco D’Alfonso. D’Alfonso ha ricordato la data dell’8 settembre come data di verità per un confronto sul nostro passato e sui nostri sbandamenti collettivi. Ha illustrato come il popolo italiano sia stato capace di accordare un consenso di massa a un regime nefasto, ma anche abbia saputo dimostrare una straordinaria forza di reazione e di riscatto mediante la Resistenza. In nome di questo ha espresso la necessità di richiamare i cittadini e la politica alla partecipazione nella costruzione del presente.

I lavori sono iniziati con l’intervento del prof. Nicola Labanca su Il problema del silenzio: il passato coloniale dell’Italia, seguito da quello di Filippo Focardi sul tema La lotta contro il “comune nemico” tedesco e la rimozione delle responsabilità italiane nella guerra dell’Asse.

Labanca ha spiegato come il rapporto dell’Italia con il suo passato coloniale si comprenda meglio, se si considera il silenzio che lo ha avvolto negli anni seguenti alla caduta del fascismo e alla nascita della Repubblica: un silenzio della memoria, che tuttavia non è stato né oblio, né rimozione. Sarebbe stato tale infatti se non fossero sopravvissuti stereotipi dell’ideologia coloniale fascista, che sono invece ben radicati nella popolazione italiana e permangono ancora oggi per esempio nell’atteggiamento razzista di molti italiani di fronte al fenomeno emigrazione, che pure non ha nessuna relazione con quel passato.

Ciò aiuta a comprendere l’imbarazzo che ha sempre accompagnato questo silenzio sia nell’epoca della decolonizzazione, sia in quella post-coloniale. Fu un silenzio prima di tutto della politica, esteso anche a molte letture storiche, fino a quelle dei manuali scolastici. Fu interrotto a tratti a partire dagli anni Sessanta dal coraggio di alcuni storici come Angelo Del Boca e Giorgio Rochat, e dall’iniziativa individuale di alcuni scrittori, che hanno un precedente in Tempo di uccidere di Ennio Flaiano (1947), ma giungono a contributi radicalmente innovativi nello svelamento dei caratteri del post-colonialismo italiano soltanto negli ultimi dieci anni con romanzi come quello di Gabriella Ghermandi, Regina di fiori e di perle (2007), e di Roberto Fraschetti, Nera delle dune (2008). Se pure è stata ormai intrapresa, lunga è ancora la strada verso una consapevolezza critica di questo passato. Ne sono prova l’assenza di un museo che ricordi l’esperienza coloniale e in direzione contraria la costruzione ancora nel 2012 di un mausoleo a Rodolfo Graziani, noto in tutto il mondo come un criminale di guerra soprattutto per i crimini commessi durante la conquista italiana dell’Etiopia.

Filippo Focardi si è soffermato sull’elaborazione italiana della memoria pubblica della guerra e sulla costruzione di una dimensione epica e nazionale della Resistenza, con l’attribuzione alla Germania nazista di ogni responsabilità relativa alla conduzione criminale del conflitto. Il problema, che pur si poneva anche ad altri Paesi alleati dell’Asse, in Italia acquistava un peso ben più grave, data la centralità del ruolo dello Stato fascista nella distruzione dell’equilibrio europeo successivo alla prima guerra mondiale. Nel 1945 era necessaria per l’Italia sconfitta una autolegittimazione politica, per evitare una pace punitiva; e questo era possibile grazie alla rivendicazione della guerra di Liberazione, ma anche in virtù del fatto che molta propaganda alleata aveva dipinto la maggioranza del popolo italiano ostile nei fatti alla guerra dell’Asse. Nacque così la rappresentazione stereotipa, passata attraverso un’imponente azione di tutti i mezzi di comunicazione, del soldato italiano buono e generoso, che aveva aiutato le popolazioni civili indifese, intimamente ostile alla guerra, piuttosto vittima che carnefice, da contrapporsi al ‘cattivo’ tedesco, spietato, sadico e sanguinario. Ciò interessava sia alla monarchia e alla diplomazia italiana, desiderosa di liberarsi dalle troppe complicità col regime, sia a parte delle stesse forze antifasciste, che giunte al governo del Paese cercavano legittimazione interna e internazionale.

Se l’immagine autoassolutoria così costruita permetteva al Paese di guardare avanti con più fiducia e ricostruire sulle desolate e desolanti macerie del fascismo, induceva inevitabilmente a rimuovere i crimini commessi dalla camicie nere all’interno dell’Italia e nei territori occupati, soprattutto nei Balcani.

La mattina del giorno seguente hanno parlato Luigi Ganapini sul tema L’8 settembre nella memoria degli italiani, Thomas Altmeyer su Il lavoro dei siti di memoria in Germania e Lore Kleiber su La Villa della Conferenza di Wannsee: la sua funzione simbolica e l’importanza attuale nel contesto dei luoghi di memoria a Berlino.

Per Ganapini ci sono stati altri 8 settembre, oltre a quello vulgato di una nazione sostanzialmente estranea all’ideologia fascista che l’aveva dominata, vittima di raggiri e violenze e desiderosa di riscatto. C’è quello che emerge dalle memorie degli internati militari, che insistono su sconcerto, incredulità e indignazione nei confronti del comportamento del re e delle alte cariche dello Stato. Domina in loro un alto concetto di patria tradita e uno spirito di lealtà verso la monarchia, ritenuta emblema dell’unità nazionale. C’è poi l’8 settembre generatore di confusione nei più, incapaci di cogliere la complessità dei rapporti tra le forze in gioco e che avevano riconosciuto nei tedeschi prima gli alleati capaci di risolvere a nostro favore le sorti del conflitto e ora si trovavano a vederli come nemici. Tutto questo ovviamente non esclude le memorie più attive, che si raccolsero intorno alla data dell’armistizio: quelle dei fascisti, che si sentirono traditi dal re e dal popolo, e quelle degli antifascisti che, dovendo scacciare l’usurpatore straniero, si sentivano legittimamente i continuatori del Risorgimento.

Thomas Altmeyer ha ricostruito le vicende che hanno segnato in Germania il recupero dei luoghi della memoria del nazismo soprattutto a partire dagli anni Novanta, dopo decenni di sostanziale oblio dei siti dei crimini, spesso ridotti a discariche, stalle, magazzini o ad altri usi come residenze private e negozi. Si è poi soffermato sulla funzione didattica della memoria e sulle sfide del presente per valorizzarla e renderla attiva nelle nuove generazioni. Oggi ci sono in Germania circa cento siti della memoria, e c’è un diffuso interesse verso queste tematiche, anche tra i giovani. Ma a questo non corrisponde una adeguata conoscenza della storia. Le nuove generazioni non hanno memorie di famiglia e non sono più in grado di leggere nemmeno i simboli politici. Sanno per esempio che il 27 gennaio è il giorno della memoria, ma meno del 3% sa che è la data della liberazione di Auschwitz. Altmeyer si chiede allora fino a qual punto siano adeguate le procedure fino ad oggi perseguite per la conservazione della memoria, a partire dalla tradizionale posa di corone celebrative. Ritiene per esempio che per le nuove generazioni sia sempre più importante il processo di identificazione, che permetta loro di confrontare se stessi con coloro che avevano la loro età negli anni Trenta e Quaranta. Ritiene anche che sia molto importante la storia locale, vicina, del territorio, delle case, delle vie dove si vive nelle quali si deve sempre più frequentemente ‘inciampare’ nelle tracce della memoria, Tale è il significato delle ventiquattromila pietre d’inciampo poste in Germania dal 1997, delle quali cinquecento solo a Francoforte.

Lore Kleiber ha posto l’attenzione sulla necessità di problematizzare sempre più la questione della memoria storica e ha esortato alla collaborazione tra enti e associazioni presenti in Europa con le medesime finalità. Ha poi raccontato la storia dell’istituzione della Villa della Conferenza di Wannsee, sorta nel 1992, grazie anche alla nuova congiuntura politica.

Vi si è realizzata una mostra, per ricostruire il contesto storico e politico della conferenza di Wannsee (20 gennaio 1942) e le sue conseguenze, e che viene periodicamente aggiornata tenendo conto del dibattito più avanzato su questi temi. È una mostra modulabile e adattabile a vari percorsi, a pubblici diversi anche non specializzati. Alla visita è sempre accostata almeno una giornata di studio o alcuni seminari, indirizzati a ogni tipo di pubblico. La casa ha oltre centomila visitatori ogni anno ed è gestita da quattro collaboratori fissi e trenta liberi professionisti provenienti da studi di aree diverse: dalla letteratura, alle scienze storiche e giuridiche. Si approfondiscono tematiche che vanno dalla politica, alla propaganda, alle fonti, alla lingua e alla comunicazione del nazionalsocialismo. L’intento, oltre all’aggiornamento costante con una biblioteca di cinquemila volumi, è quello di realizzare percorsi sempre più problematici per riuscire ad affrontare le questioni di interesse anche in termini di etica: sia nelle professioni, sia nella vita civile.

Il convegno si è chiuso con gli interventi di Mimmo Franzinelli su I conti mancati con la dittatura: l’amnistia Togliatti; di Raoul Pupo, che ha parlato sul tema Per una storia critica delle vicende del confine orientale; e di Paolo Jedlowski su La difficile costruzione di una memoria autocritica.

Franzinelli si è soffermato sul contesto nel quale fu emanata l’amnistia Togliatti, che il 22 giugno 1946 consentì la liberazione di diverse migliaia di fascisti, senza distinzioni sulla gravità dei reati loro ascritti. Il fatto permise alla magistratura, che per prima transitò indenne dalla dittatura alla democrazia, di portare alla liberazione anche di torturatori e criminali di guerra, oltre che di esponenti di spicco della Repubblica Sociale. Inoltre, fatto molto grave per la ricostruzione storica, determinò l’archiviazione di molti processi in atto. L’esame delle “carte Togliatti” conservate alla Fondazione Gramsci di Roma permette inoltre di accertare che proprio all’allora ministro di Grazia e Giustizia è da attribuire la paternità del documento.

Pupo, oltre all’aggiornamento critico sulla storiografia relativa al soggetto trattato, ha sviluppato una lezione di metodo storico, indotta anche dall’argomento certamente tra i più soggetti negli ultimi decenni all’insorgere di mitologie interpretative, spesso antagoniste, ideologicamente riconoscibili, nonché fondate su luoghi comuni. Per Pupo la storia delle terre adriatiche è invece un vero e proprio laboratorio critico della contemporaneità, nella consapevolezza che «nello scrivere di storia basta distrarsi un attimo, che si combinano pasticci, che poi sono difficili da rimediare». L’intervento ha cercato invece di riposizionare i conflitti di questi territori in una prospettiva plurale e in modo storicamente più corretto.

Un esempio del metodo adottato può essere la messa in discussione del giudizio autoassolutorio ricorrente di considerare sempre la popolazione della Venezia Giulia come vittima di aggressori esterni, di un male che generano altri. Tale interpretazione è sistematicamente smentita dal dato costante dell’altissima frequenza delle delazioni, a partire da quelle a danno degli irredentisti durante la prima guerra mondiale, seguite dalle innumerevoli spiate durante l’occupazione germanica, e infine da quelle avvenute durante l’occupazione jugoslava. Ciò svela l’esistenza e il protrarsi di un corpo sociale profondamente e strutturalmente lacerato e disposto a rendere attivi questi conflitti non appena la circostanza storica ne offra il pretesto. Ovviamente una tale osservazione rischia di divenire superficiale, se non inserita nei diversi contesti storici che hanno determinato i fatti, ma è tuttavia produttiva in quanto consente di ridisporre in modo più critico ed equilibrato i termini della questione. Analogamente quando si parla di esodo dei giuliano-dalmati occorre affrontare il rapporto esistente fra scelta e costrizione all’interno di qualsiasi fenomeno di migrazione e distinguere così tra esodo, deportazione ed espulsione.

Paolo Jedlowski ha sostenuto infine la necessità di una memoria autocritica per la costruzione dell’identità di un Paese civile, e la ha presentata come il necessario completamento di altre forme di memoria pubblica. Ha quindi avviato una riflessione sugli strumenti di costituzione della memoria, tra i quali ha riservato una attenzione particolare al cinema. La memoria autocritica è quella che conserva il ricordo di ciò di cui non si può essere fieri, della propria “tradizione negativa”, ed è il contrario della memoria autocelebrativa, che nel corso dei secoli le élites dominanti hanno generalmente sostenuto e costruito.

Il tema sociologico si innesta così a pieno diritto nel discorso storico di chi per decenni ha interpretato e rappresentato la tragedia della deportazione come responsabilità di altri: i nazisti o genericamente i tedeschi. La memoria diventa memoria autocritica quando il responsabile non è più “altro” rispetto alla nostra storia. Jedlowski ha ricordato a questo proposito il film del 1976 Mr. Klein di Joseph Losey, dove un non ebreo, scambiato per un ebreo, finisce anche lui per essere deportato e giunge a rassegnarsi alla deportazione e a partire con tutti gli altri sul treno. Lo spettatore si sente portato a dire “avete preso l’uomo sbagliato: lui non è ebreo!”, fino a quando uno shock improvviso non gli rivela che tutte le persone su quel treno sono “sbagliate”. Prende così coscienza della propria responsabilità e scopre che l’autocritica si può fare solo da sé e su di sé, offrendoci una possibile chiave interpretativa per l’intero convegno.

Un ricordo di Giovanna Massariello. Il dovere della testimonianza e il diritto alla ricerca
Massimo Castoldi, Un ricordo di Giovanna Massariello. Il dovere della testimonianza e il diritto alla ricerca, «Triangolo rosso», n. 7-9, ottobre-dicembre 2013, pp. 48-49.
Giovanna Massariello e Annette Chalut durante l’incontro Le deportate europee nei lager nazisti: politiche, "razziali", asociali, 8 maggio 2010, sala conferenze Fondazione Memoria della Deportazione.

Giovanna Massariello e Annette Chalut durante l’incontro Le deportate europee nei lager nazisti: politiche, “razziali”, asociali, 8 maggio 2010, sala conferenze Fondazione Memoria della Deportazione.

Ricordo un giorno l’anno scorso, quando Giovanna mi portò quattro piccoli fogli di quaderno a righe scritti di pugno da mia nonna Marcella Chiorri Principato e intitolati La donna italiana. Li aveva trovati tra le carte di sua madre Maria Arata, ex-deportata, scomparsa nel febbraio 1975. Me li donò senza troppe parole e chiedendomene la fotocopia, ma sapendo come mi sarei comportato con quelle carte. Infatti le lessi, le trascrissi e incominciai a studiarle. Era un discorso denso di sofferenza e carico di speranza, risalente ai tempi della Consulta Nazionale, ovvero ai mesi precedenti al 2 giugno 1946, quando Maria Arata, al ritorno da Ravensbrück, sia pure ancora profondamente segnata dalle sofferenze del lager, collaborava con mia nonna nei Gruppi di Difesa della Donna, proprio mentre si avviavano a entrare a far parte dell’Unione Donne Italiane.

Evidentemente mia nonna decise di donarle quelle pagine autografe, come un omaggio verso l’amica che il 4 luglio 1944 vide dalla finestra arrestata dalla polizia fascista e portata via su un carro di spazzatura. L’episodio è descritto anche da mia madre nelle sue memorie (Concettina Principato, «Siamo dignitosamente fiere di avere vissuto così». Memoria della Resistenza e difesa della Costituzione. Scritti e discorsi, a cura di Massimo Castoldi, Ravenna, Giorgio Pozzi, 2010, p. 31).

Tra gli Arata e i Principato esisteva un legame profondo, rinsaldato nella condivisione di ideali e valori comuni, che li univano nella lotta antifascista. Maria Arata, a esordio del suo Diario di una deportata a Ravensbrück, Il ponte dei corvi (Milano, Mursia, 1979, p. 18) ricorda proprio mio nonno tra i suoi «compagni di lotta leali, valorosi fino all’eroismo». Abitavano in due isolati contigui: gli Arata in via Garofalo 44, i Principato in via Gran Sasso 5.

Quel 4 luglio Maria Arata fu condotta prima alla Guardia repubblicana dell’Ufficio Politico Investigativo del gruppo «Fabio Filzi» di via Tonale e poi al carcere di San Vittore. Solo quattro giorni dopo sarebbe stato arrestato anche mio nonno, poi fucilato in Piazzale Loreto il successivo 10 agosto. Maria Arata sarebbe partita per Bolzano il 7 settembre e poi per Ravensbrück il 7 ottobre.

Il filo non si è interrotto col passaggio delle generazioni. Mia madre aveva lavorato con Maria Arata e io con Giovanna.

Quelle carte erano la conferma di un intreccio di vicende umane e storiche, ma anche per noi di un metodo di lavoro e di una scelta di vita.

Questo mi univa a Giovanna: la necessità morale di testimoniare la vita dei propri congiunti che avevano lottato e sofferto per affermare valori di onestà, libertà e democrazia, ma anche il bisogno di sostenere tale proposito col rigore scientifico della ricerca.

Giovanna usava le proprie competenze di docente di glottologia e linguistica, esperta di lessicologia, lessicografia, dialettologia, interferenza linguistica, anche nella ricerca sulla memoria e questa a sua volta influenzava l’orientamento dei suoi studi linguistici.

Il lager, lo scrive Primo Levi, è per sua stessa natura una «Babele» di linguaggi, nella quale si impone una lingua su tutte le altre: il tedesco, la lingua del potere. Chi lo conosce aumenta le sue esigue possibilità di sopravvivenza, ma chi sopravvive lo avverte negli anni come un incubo costante, al punto da non riuscire più a sopportarne la pronuncia anche dei più elementari fonemi. Nel lager, le differenze, le minoranze, le variazioni linguistiche sono punite e il monologismo dei dominatori annulla i deportati come parlanti e quindi come uomini. Il rifiuto di tale atteggiamento aiuta a comprendere l’interesse da parte di Giovanna per tutti gli aspetti dialogici e interdiscorsivi del linguaggio, sia all’interno dell’esperienza dei campi di sterminio, sia nella realtà contemporanea.

Un libro che stava molto a cuore a Giovanna era la Poetica del diverso dello scrittore francese studioso di letteratura caraibica Édouard Glissant (Roma, Meltemi 1998, trad. da Introduction à une poétique du divers, Paris, Gallimard, 1996), che sostiene che «noi dobbiamo considerare il multilinguismo un dato poetico della nostra esistenza e non una realtà che ci rende poliglotti», essere multilingue significherebbe innanzitutto una disponibilità ad ascoltare, prima che un’abilità a parlare. Ed è in questa chiave che Giovanna leggeva l’interesse linguistico di Primo Levi, osservando per esempio come spesso nei suoi libri l’epigrafe in esergo sia in una lingua diversa rispetto all’italiano: in yiddish nel Sistema periodico, in inglese nella Chiave a stella, come se in questa accoglienza di un’altra lingua vi fosse implicito un segnale al lettore di attenzione più profonda e più estesa all’accoglienza della diversità culturale.

Il documento era per Giovanna punto di partenza, di ancoraggio della propria indagine, ma era ben consapevole quanto questo fosse anche un pretesto per andare oltre l’archivio e la testimonianza, fosse questa anche quella di sua madre.

La sua non è stata mai nostalgica rievocazione, ma provocazione e sfida a un presente spesso distratto.

E qui ancora una volta torna la lezione di Levi, che con Se questo è un uomo non ci ha lasciato un diario, ma uno strumento di ricerca e di conoscenza prima di tutto di noi stessi.

Qui la scelta del lavoro in Fondazione e la collaborazione con me, nella convinzione che la nostra non debba essere solo conservazione della memoria e della testimonianza, ma un interrogarsi sulle dinamiche storiche per generare una riflessione, che ripudi le chiacchiere troppe volte spacciate per storia. Ultimo atto del nostro lavoro insieme è stato il convegno del 18-19 ottobre Settant’anni dall’8 settembre 1943. Per la costruzione di una memoria europea. Il peso delle responsabilità storiche di Italia e Germania, al quale Giovanna non ha potuto presenziare, ma del quale è stata l’ideatrice, l’ispiratrice, la realizzatrice. In sua memoria ne curerò la pubblicazione degli atti.

Il suo magistero sta proprio in questo: nell’inscindibilità della ricerca scientifica dalla testimonianza e dall’impegno etico e civile, nella consapevolezza di essere anello di una catena che, legata all’esperienza di chi non c’è più, ci permetta di guardare avanti con un certo ottimismo, nonostante tutto.

Credo che questa fiducia sia la sua principale eredità, necessaria per guidare la Fondazione memoria della Deportazione verso una nuova fase, per fare delle voci dei testimoni non un coro indistinto, ma il fondamento di una coscienza critica, che anche se resta di pochi, costituisca un baluardo contro ogni forma di deriva dei principi di rispetto della dignità umana, per i quali troppe vite sono state tragicamente sacrificate.

Sei mesi d’intensa attività della Fondazione Memoria della Deportazione
Massimo Castoldi, Sei mesi d’intensa attività della Fondazione Memoria della Deportazione, «Triangolo rosso», n. 4-6, giugno-settembre 2014, pp. 6-9.
Milano, Fondazione Memoria della Deportazione, 26 marzo 2014. Da sinistra: Filippo Del Corno, Rita Innocenti, Guido Lorenzetti, Antonio Pizzinato e Massimo Castoldi.

Milano, Fondazione Memoria della Deportazione, 26 marzo 2014. Da sinistra: Filippo Del Corno, Rita Innocenti, Guido Lorenzetti, Antonio Pizzinato e Massimo Castoldi.

Quando il Presidente Gianfranco Maris, con l’approvazione del Consiglio d’Amministrazione, mi ha designato alla direzione della Fondazione Memoria della Deportazione, sapevo che l’incarico sarebbe stato oneroso e molte le sfide da accogliere e interpretare, sia per portare avanti i progetti che già avevamo in cantiere con la prof. Giovanna Massariello, sia per predisporne di nuovi, incontrando scuole, università e istituzioni. È troppo presto per fare bilanci, ma sei mesi sono tuttavia sufficienti per avviare qualche prima riflessione e per dire anche un grazie sincero a Elena Gnagnetti e a Vanessa Matta, per il generoso impegno dedicato alla realizzazione di tutto questo.

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Il Convegno del 18-19 ottobre 2013 Settant’anni dall’8 settembre 1943. Per la costruzione di una memoria europea. Il peso delle responsabilità storiche di Italia e Germania ha costituito sicuramente un momento importante per connotare l’indirizzo delle nostre attività verso una rinnovata consapevolezza storica e critica. Nel solco segnato da questo convegno si sono avviate e organizzate altre iniziative. Già il 9 ottobre si era parlato con la prof. Francesca Costantini del CDEC dei Luoghi della memoria ebraica a Milano, con grande partecipazione di pubblico, che si è ripetuta all’incontro del 18 dicembre sull’Analisi e dislocazione dei servizi di polizia e d’informazione tedesca a Milano e sul Palazzo dell’aeronautica, con la prof. Roberta Cairoli e Guido Lorenzetti, membro del nostro Consiglio d’Amministrazione.

Al padre di Guido, Andrea Lorenzetti, socialista e tra gli organizzatori degli scioperi del marzo 1944, che fu deportato prima a Fossoli, poi a Mauthausen, dove, smistato al sottocampo di Gusen III, rimase fino alla liberazione, ma provato fisicamente morì il 15 maggio 1945, la Fondazione ha dedicato il 26 marzo 2014 un incontro su Il ruolo del Partito Socialista nell’organizzazione degli scioperi del marzo 1944. Erano con noi presenti Filippo Del Corno, Assessore alla Cultura del Comune di Milano, Rita Innocenti, Assessore alla Cultura del Comune di Sesto S. Giovanni, Dario Venegoni, Vice Presidente Aned Nazionale, il prof. Simone Neri Serneri dell’Università di Siena, il prof. Giovanni Scirocco dell’Università di Bergamo; Antonio Pizzinato, Presidente onorario dell’ANPI Lombardia. È stata un’occasione anche per presentare le ricerche svolte per la pubblicazione del volume Andrea Lorenzetti prigioniero dei nazisti libero sempre. Lettere da San Vittore e da Fossoli, a cura di Guido Lorenzetti, Sesto S.Giovanni, Mimesis 2014.

Milano, Palazzo Reale, 24 gennaio 2014. Da sinistra: Liliana Segre, Giuliano Pisapia e Venanzio Gibillini.

Milano, Palazzo Reale, 24 gennaio 2014. Da sinistra: Liliana Segre, Giuliano Pisapia e Venanzio Gibillini.

Un altro momento fondamentale per delineare nuove prospettive di ricerca è stato l’incontro del 21 febbraio 2014 (relatori prof. Massimo Castoldi, dott. Bianca Pastori), Il silenzio, la memoria, le voci, i documenti. I nove ragazzi del Campo Giuriati (14 gennaio 1945), nel quale grazie al confronto tra competenze propriamente storiche e altre derivanti da studi antropologici sulla memoria orale abbiamo cercato di verificare nei fatti i metodi necessari per andare oltre la testimonianza, mediante un vaglio critico delle fonti di diversa provenienza. L’interazione, il confronto e il dialogo ci hanno permesso di ricostruire in parte le vicende dei nove ragazzi del Fronte della Gioventù fucilati al Campo Giuriati a Milano il 14 gennaio 1945, ma anche di riflettere su silenzi, rimozioni, ricostruzioni storiche non sempre adeguate.

Luoghi della memoria

Tutto questo ha rappresentato anche un settore del laboratorio di ricerca sui Luoghi della Memoria della città di Milano, al quale la Fondazione sta lavorando da tempo, e che quest’anno ha prodotto un volume da me curato sul Comitato Onoranze Caduti per la Libertà, presieduto da Antonio Greppi, sindaco della Liberazione, e che fu attivo a Milano tra il 1945 e il 1956 con lo scopo di conservare la memoria dei Caduti milanesi, di assisterne i familiari e di coordinare le celebrazioni della Resistenza. Si è condotto uno spoglio sistematico delle tracce del Comitato negli archivi e soprattutto sulla stampa quotidiana e periodica di quegli anni. Fu il Comitato a porre le lastre in bronzo coi nomi dei caduti a Milano in piazza Mercanti, a far erigere il monumento al Campo della gloria n. 64 del Cimitero Maggiore e a porre molte delle lapidi che sono in città. Le sue vicende rispecchiano anche la storia complessa di quegli anni. Il volume, pubblicato per Franco Angeli, è costruito intorno a uno scritto di Marcella Chiorri Principato (1902-1980), che del Comitato fu ispiratrice e segretaria, dopo essere stata attiva nella Resistenza a fianco dei socialisti Alberto Benzoni, Rodolfo Morandi e Lelio Basso, nell’assistenza ai prigionieri del carcere di San Vittore e alle famiglie di caduti e deportati: Marcella Chiorri Principato, Il Comitato Onoranze Caduti per la Libertà. Milano 1945-1956, a cura di Massimo Castoldi, Milano, Franco Angeli, 2014.

Grazie poi alla collaborazione con la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, mi è stato possibile organizzare un seminario itinerante, che ho tenuto su alcuni Luoghi di Memoria della città (13 giugno 2014) collegando la Fondazione al progetto Villard: 15 un programma di progettazione urbanistica che coinvolge tredici università italiane ed estere (Università Sassari/Alghero; Politecnico Marche/Ancona; Università Camerino /Ascoli Piceno; Università Ljubljana; Politecnico Milano; Università Napoli; Università Palermo; Università Paris Malaquais; Università Patras; Università Chieti/Pescara; Università Mediterranea/Reggio Calabria; Università Roma 3; Università Iuav Venezia; Ordine degli Architetti di Trapani).

Ci siamo fermati in Piazzale Loreto, al Campo Giuriati, al Cimitero Monumentale, alla Loggia dei Mercanti, all’Albergo Regina e in via Rovello, ex sede della fascista Legione autonoma Ettore Muti.

Valorizzazione dell’archivio

All’interno della Fondazione procede intanto l’inventariazione dei Fondi storici presenti nell’Archivio, riconosciuto, ormai dieci anni or sono, d’interesse storico particolarmente importante dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali.

Ricordo che già nel 2012 la dott.ssa Sonia Gliera ha concluso il riordino e l’inventariazione del fondo Aned Nazionale, nel 2013 quello dell’Aned di Milano, nel marzo di quest’anno (2014) quello del fondo d’archivio di Italo Tibaldi, e pochi giorni fa (giugno 2014) quello del fondo di Felice Pirola. Sono già stati avviati i lavori su altri fondi cartacei presenti, a partire da quelli di Giandomenico Panizza, Giorgio Gimelli e Aned sezione di Gorizia.

Sono in corso inoltre da parte del dott. Rocco Marzulli un intervento sul nostro Archivio audiovisivo e da parte della dott. Maddalena Cerletti su quello fotografico, già parzialmente consultabili.

Nel 2015 si dovranno attuare progetti specifici per la piena valorizzazione di tutti questi fondi archivistici, che stanno incominciando a fare di via Dogana 3 un fermo punto di riferimento per richieste di consultazione da parte di tutta Italia e anche dal resto del mondo. Sono state avviate ricerche per conto del Centro Primo Levi di New York, della Fonds Social Juif Unifié di Parigi, della Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco di Baviera, della Stiftung Gedenkstätten Buchenwald und Mittelbau-Dora.

Incontri con le scuole secondarie

L’impegno forse maggiore che ha segnato l’attività di questi mesi è stato, tuttavia, quello degli incontri con gli studenti delle scuole secondarie, che ha fatto conoscere la Fondazione a oltre duemila studenti su tutto il territorio nazionale.

Punto fermo delle iniziative è stato l’incontro del 24 gennaio, che ho coordinato a Milano nella sala conferenze di Palazzo reale sul tema Il valore della testimonianza con Liliana Segre (ex deportata ad Auschwitz), Venanzio Gibillini (ex deportato a Dachau), alla presenza del sindaco di Milano Giuliano Pisapia. Oltre ai duecentosessanta studenti presenti in sala, quest’anno una diretta streaming ci ha consentito per la prima volta di raggiungere scuole sparse su tutto il territorio nazionale. Il risultato è stato di grande impatto e importanza, perché abbiamo potuto sia verificare come si possa moltiplicare la potenzialità di comunicazione anche per un nostro evento, sia constatare la viva partecipazione con la quale studenti di scuole da noi non facilmente raggiungibili abbiano organizzato il collegamento all’interno degli istituti. Abbiamo così parlato, tra i riscontri avuti, anche col Liceo Classico Domenico Morea di Conversano (Bari), con le scuole medie di Monasterace (Reggio Calabria), con la scuola media Mascagni di Melzo (Milano), e perfino con alcuni gruppi di studenti in autogestione, che hanno deciso di dedicare una mattina all’ascolto dei nostri testimoni.

Analogamente, rimanendo sul tema della testimonianza, è stata di grande interesse l’iniziativa realizzata in collaborazione con Divo Capelli (Aned Bologna e Consiglio di Amministrazione della Fondazione) e il liceo “Rosa Luxemburg” di Bologna. Dopo che gli studenti erano stati accompagnati dall’Aned coi loro insegnanti ad Auschwitz e alla Risiera di San Sabba, e dopo che erano state proposte loro letture, visioni di video con interviste a testimoni, e dopo che gli studenti stessi avevano realizzato sul sito della scuola uno spazio dedicato intitolato Staffette della memoria, quindi dopo una preparazione durata per tutta la prima metà dell’anno scolastico, li ho incontrati il 7 marzo 2014, con una lezione sulla deportazione femminile e discutendo con loro esperienze e letture. Ho risposto alle loro domande, cercando di guidarli verso una consapevole coscienza critica e storica di quanto visto, osservato ed elaborato.

Accanto a questi percorsi in sé compiuti e strutturati, vi sono state altre proposte ai giovani, sia con qualche piccolo seminario sulla Costituzione, o su momenti particolari della Resistenza, organizzato su misura per alcune classi, sia con la promozione di eventi e spettacoli teatrali, accompagnati da un vivace dibattito, che ho sempre cercato di coordinare. Ricordo almeno Edith Stein. La settima stanza (Associazione Culturale Teatro Poesia) con la regia di Silvana Strocchi, il 27 gennaio 2014 al teatro Dehon di Bologna; lo spettacolo musicato su Alice Herz Sommer, sopravvissuta alla Shoa, dal titolo Alice: 88 tasti nella storia (Compagnia Note di Quinta) con la regia di Laura Pasetti il 2 febbraio 2014 al Teatro Oscar di Milano; e, in occasione della ricorrenza degli scioperi di marzo del 1944, lo spettacolo di Gianluca Foglia Officine Libertà. L’onda della Madonnina, organizzato a Milano il 22 marzo 2014 nella Sede Officine ATM di via Teodosio, in collaborazione con ANPI e Istituto Lombardo di Storia Contemporanea.

La stanza della memoria. Pioltello: Giacomo e Fausto Cibra

Un progetto articolato, contraddistinto dalla partecipazione della Fondazione Cariplo, e che pure ci ha consentito l’incontro con scuole medie di primo e di secondo grado dislocate sul territorio della provincia di Milano, ma non solo, è stato quello denominato La Stanza della memoria: risorsa per costruire una coscienza e una conoscenza storica.

In alcune scuole i percorsi sono rimasti incompiuti, almeno nel presente anno scolastico, ma sono stati comunque avviati e forse alcuni saranno portati a termine nel prossimo.

In due istituti, tuttavia, la stanza della memoria è stata effettivamente realizzata su esplicita programmazione del Collegio docenti: la Scuola Media Statale “Pietro Mascagni” di Melzo (MI) con referente la prof. Paola Guidotti e il Liceo scientifico Machiavelli di Pioltello (MI) con referente la prof. Laura Carchidi.

In entrambe le scuole la Fondazione è stata presente con una costante collaborazione con gli insegnanti, che si è concentrata soprattutto in prossimità delle ricorrenze del calendario civile nazionale.

Sono state allestite all’interno di ciascuna scuola mostre sulla deportazione in Europa, volte ad illustrare il fenomeno con materiali informativi e documenti storici, sempre con lo scopo di andare oltre l’impatto emotivo suscitato dalla testimonianza diretta.

Nel frattempo abbiamo realizzato per ciascuna scuola una Biblioteca scolastica sulla Deportazione e sulla Resistenza, per consentire ricerche interne e per rendere familiare a studenti e insegnanti la consultazione di una biblioteca. Si è cercato di articolare le biblioteche in modo critico, a partire dalle principali bibliografie sull’argomento, a testi di più agevole lettura. In tutto circa cinquanta volumi per scuola.

Gli studenti e i docenti sono inoltre stati coinvolti nelle nostre varie iniziative e guidati anche all’uso corretto del web, nella ricerca dei siti sulle tematiche della deportazione e della Resistenza, a riconoscere quelli più affidabili. Per l’occasione abbiamo predisposto una vera e propria sitografia sulla deportazione, che presto sarà consultabile sul nostro sito, e aperto un canale you tube della Fondazione, inserendo alcune testimonianze.

Si è poi proceduto con l’individuazione di profili umani da valorizzare e aventi qualche legame con la scuola e col territorio (intestazione della scuola, presenza di un insegnante o di uno studente colpiti dalla discriminazione ideologica o “razziale”; esistenza di lapidi commemorative all’interno o nei pressi dell’istituto; ricerca atta a svelare una traccia di memoria non più attiva), allo scopo di giungere all’intestazione della stanza.

Per questo a insegnanti prima e a studenti poi sono stati suggeriti percorsi bibliografici sia generali, sia pertinenti al territorio, e sono stati invitati a prendere contatti con esponenti istituzionali (assessori alla cultura) o di Associazioni (p. es. ANPI o biblioteche e archivi) attive in loco. Abbiamo lasciato svolgere a docenti e studenti le ricerche in completa autonomia, fornendo, tuttavia, costante assistenza e consulenza.

Se la scuola media di Melzo sta ancora discutendo sulla figura cui intestare la stanza, segno comunque del grande interesse mostrato al progetto; insegnanti e studenti del liceo di Pioltello si sono presto concentrati sulle figure dei due fratelli Cibra: Giacomo partigiano della 3° GAP vivente e testimone di gran parte dell’attività partigiana tra Milano e Pioltello e Fausto, internato militare in Germania e morto nel 1956. Si è così deciso di dedicare a Fausto l’aula della biblioteca della scuola e gli studenti si sono dedicati alla ricerca di testimonianze a riguardo con l’aiuto della prof. Carchidi, ma anche di una disponibilissima Fiorenza Pistocchi, assessore alla cultura del Comune.

Gli studenti hanno risposto in vario modo, raccogliendo immagini e documenti, collocandole in powerpoint illustrativi sulla storia della Resistenza, che hanno poi presentato ad altri studenti. Il nostro grazie va in particolare alla II E del Liceo Machiavelli di Pioltello, che ha elaborato anche un reading teatrale, che è stato particolarmente apprezzato, soprattutto per la correttezza delle fonti e per la partecipazione nell’interpretazione.

Il 3 giugno 2014 siamo riusciti a inaugurare la biblioteca del liceo Machiavelli come stanza della memoria, con targa dedicata «Alla memoria di / Fausto Cibra / (Spino d’Adda 1923 – Sondalo 1956) / antifascista / internato militare in Germania».

Siamo anche riusciti a fare incontrare gli studenti col partigiano Giacomo Cibra, che ci ha raccontato con generosità i momenti più significativi della propria esperienza.

La rilevanza dell’incontro e l’importanza delle informazioni ritrovate ci ha indotto a progettare un libro in proposito da realizzare prossimamente sulle vicende di questi due fratelli. Si è trattato di un caso significativo, nel quale è stata la didattica a suggerire la ricerca e non viceversa, a segno di quante e quali siano le potenzialità del nostro lavoro.