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Milano, 5 maggio 2020. In occasione del 75° anniversario della liberazione del campo di sterminio di Mauthausen, pubblichiamo un saluto di Floriana Maris, presidente della Fondazione Memoria della Deportazione:

 

La prima volta che vidi il campo di sterminio di Mauthausen, avevo 12 anni.

Mio padre, Gianfranco Maris, portò me e mio fratello Gianluca , di dieci anni, a visitare quel campo in cui all’età di 23 anni era stato deportato per la sua attività di partigiano, prigioniero politico, oppositore non rieducabile, destinato al lavoro fino al suo esaurimento fisico, con l’esplicita sua condanna all’eliminazione con il gas o con la puntura al cuore da parte del medico SS.

La fortezza di Mauthausen si parò di fronte ai nostri occhi di bambini in tutta la sua minacciosa maestosità, con i suoi muraglioni di pietra, le torrette di guardia, il filo spinato sulla sommità delle mura di cinta.

Da allora ho accompagnato ogni anno mio padre alla cerimonia di liberazione del campo, a quell’appuntamento con i suoi compagni di deportazione, quelli tornati e quelli che si erano spenti per consunzione nel campo, che erano entrati nelle camere a gas  e che nel Sonderrevier hanno visto l’ago della siringa nelle mani del medico delle SS.

Solo nel 2015, anno in cui si spegneva nel mese di agosto, mio padre mancò a quell’appuntamento, pregandomi di andare da sola a portare davanti al monumento dei deportati italiani, il suo messaggio di saluto e costante impegno per la salvaguardia della memoria storica di quella vicenda epocale.

Quest’anno mancherò, come altri compagni e compagne, amici ed amiche, a quell’impegno etico, politico, storico con la memoria dello sterminio dove è stato praticato.

Per onorare questa memoria, qui di seguito, riporto un passaggio del discorso pronunciato nel 65° anniversario della liberazione da mio padre, davanti al monumento che ricorda il sacrificio degli Italiani a Mauthausen:

“la prima riflessione che voglio fare è indicare quale è il tipo di memoria che i deportati politici di tutta Europa, non soltanto i deportati politici italiani, avrebbero voluto fosse patrimonio culturale anche 65 anni dopo.

Noi ex deportati abbiamo fatto un giuramento a metà maggio del ’45 sulla piazza dell’appello.

Nel giuramento ricordavamo perché eravamo stati portati qui.

Noi non eravamo stati portati qui perché eravamo stati disubbidienti, noi avevamo combattuto contro il nazismo e contro il fascismo, avevamo condotto una battaglia senza tregua, contro la guerra fascista e nazista, avevamo condannato le prospettive della guerra fascista e nazista che erano quelle di creare un ordine nuovo europeo fondato sulla prepotenza, sulla ricchezza, sul privilegio, fondato sulla supremazia di chi possedeva nei confronti di chi soltanto viveva lavorando.

Quindi noi abbiamo, innanzitutto, nel nostro giuramento, indicato quali erano state le ragioni della nostra deportazione e indicavamo quali erano le nostre speranze per il futuro.

Non era la speranza di una memoria del nostro singolo dolore o sofferenza, era la memoria delle finalità della nostra lotta, perché noi proiettavamo nel futuro quella lotta come una premessa sulla quale costruire un avvenire.

Non ci basta che qui si venga a piangere sulle sofferenze, questo è un lato della memoria individuale che appartiene ai sentimenti; noi vogliamo che si capisca che noi proiettavamo nel futuro la costruzione di una società democratica nella quale finalmente fosse realizzato quel che non era mai stato realizzato prima, cioè la partecipazione delle classi popolari alla costruzione di una società democratica.

Ecco perché noi parliamo in Italia di Resistenza, Liberazione, Costituzione, cioè costituzione con tutti i valori che la Costituzione raccoglie come sintesi nella grande lotta: solidarietà tra i popoli, pacifica convivenza, rifiuto della guerra, costruzione di una società di uguali, diffusione dei diritti fondamentali degli uomini e delle donne a tutti i livelli, in tutte le città e in tutti i paesi”    

 La Presidente della Fondazione Memoria della Deportazione

Floriana Maris