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Milano, 15 ottobre 2020. Non è stato facile lavorare durante i mesi di febbraio-giugno 2020, ma la scuola è andata avanti e con la scuola la nostra collaborazione. Sono stati giorni difficili, che sicuramente ci hanno fatto riflettere sulla specificità del nostro lavoro e della scuola in quanto tale. Proprio in quei mesi gli studenti  della V A del liceo classico dell’ISIS Majorana-Fascitelli di Isernia, hanno realizzato con noi e col Museo Storico della Liberazione di via Tasso a Roma un libro, Via Tasso. La disumanità occultata introdotto da alcune riflessioni del prof. Massimo Castoldi sul significato dell’insegnamento della storia, che qui riproponiamo nelle linee essenziali.

Insegnare storia oggi e ieri

Molto si è discusso in questi anni sulla centralità dell’insegnamento della storia nelle scuole. Qualcuno dice che la storia è trascurata o addirittura esautorata dal suo ruolo fondamentale, qualcuno dice che i giovani non la amano, perché la ritengono troppo nozionistica e per sua stessa natura sorpassata, nella sostanza inutile, qualcuno dice che non si studia in modo adeguato la storia del Novecento.

Credo che il fulcro del ragionamento debba essere collocato altrove.

Non v’è dubbio che la storia sia oggi, e sia stata per tutto il Novecento, l’asse portante della nostra scuola, al punto che anche altre discipline, come la letteratura e la filosofia, sono insegnate in una prospettiva rigorosamente storica.

La stessa cattedra di storia e filosofia, caratterizzante dei nostri licei classici e scientifici, e di evidente ispirazione gentiliana, non sembra finora messa in discussione, nonostante si tratti di una delle maggiori criticità del nostro sistema scolastico. Difficilmente infatti, tanto più oggi, filosofo e storico si fondano sui medesimi percorsi di formazione e ambiti di ricerca.

La storia nella scuola fascista

Se ripercorriamo le vicende della scuola dell’ultimo secolo, appare chiaro quanto  l’insegnamento della storia sia stato sempre posto al centro del processo formativo, a partire proprio da quella scuola fascista, che vedeva nella storia lo strumento principale per «l’attuarsi categorico della coscienza nazionale», che sarebbe dovuta essere «la missione del Fascismo nella storia d’Italia», e che si risolveva per il fascista nello spirito guerriero.

Soltanto lo studio della storia, infatti, avrebbe rafforzato nelle nuove generazioni il senso «della ineluttabilità della lotta tra i popoli e della fecondità, anzi, di tale lotta, rispetto al progredire dell’umano incivilimento». Per il fascismo la storia rivelava la «tragica necessità» della guerra e smentiva quelle «ideologie di pace universale e perpetua», che, se anche rappresentavano «un bel sogno», non reggevano proprio «alla prova» dei fatti. La storia doveva essere anche una rappresentazione «dell’azione eroica individuale o collettiva», con quella «potenza di suggestione»,  grazie alla quale gli antichi Romani ne fecero uno degli strumenti più efficaci della loro educazione militare.

Preparare i giovani alla guerra significava imporre loro la rinuncia a ogni altro ideale o valore, perfino alla propria vita, e anche plasmarli all’obbedienza cieca e acritica, perché «nulla v’ha di più dannoso e folle che discutere quando è il momento d’agire» (Traggo i riferimenti puntuali da Gallo Galli, I Principii della Scuola Fascista, Milano, «Il Risveglio scolastico» A. Milesi & figli, [1935], p. 67-72).

Questo è stato durante il Ventennio fascista lo scopo ufficiale delle lezioni di storia. Oggi si insegna la storia in altro modo e con finalità diverse, che richiederebbero, onde evitare equivoci, di essere rese esplicite e meditate.

Una ragione per studiare oggi la storia

Non è dunque lo studio della storia da porre al centro della nostra riflessione, ma un particolare modo di studiare la storia. Studiamo la storia, affinando quelle capacità critiche indispensabili per riconoscere l’inganno, la falsificazione e il pregiudizio, per garantire l’educazione di un libero cittadino, di un uomo responsabile, capace di valutare i fatti e scegliere in autonomia.

Anche tutti i discorsi abusati sulla necessità di privilegiare l’insegnamento della storia contemporanea su quello della storia antica pongono nella sostanza un falso problema, dato che è il metodo di analisi e di studio che fa della storia uno strumento valido e contemporaneo per la costruzione dell’uomo libero, non la storia in quanto tale.

Dato per scontato che l’informazione sulla storia recente è quanto mai opportuna e necessaria, è evidente che ogni insegnamento, se autentico, è per sua stessa natura contemporaneo. Si parla dell’oggi tanto parlando degli antichi greci, quanto parlando della seconda guerra mondiale, e un insegnante, così come un filosofo, uno storico, un critico, uno scienziato, se è veramente tale, è sempre inevitabilmente contemporaneo.

Se si parla di fascismo, Resistenza, deportazioni con un metodo e un linguaggio inadeguati o comunque propri di chi vuole plasmare le coscienze dei giovani e non educarle, è meglio non farlo.

Le giovani generazioni non hanno bisogno di essere indottrinate, e nemmeno genericamente e soltanto informate, ma hanno invece una grande urgenza di sapersi orientare nel labirinto delle informazioni, spesso errate, che le confondono e a volte le travolgono.

Chiedono di interagire con un adulto, che si ponga di fronte a loro con sapienza, rigore e umanità, con un proprio linguaggio e una propria esperienza, che sia credibile e abbia qualcosa da insegnare.

Competenze e conoscenze

Gli esperti di scuola da decenni insistono su una didattica per competenze e avrebbero anche ragione, se riconoscessero che le competenze si formano esclusivamente mediante determinate conoscenze. Non posso parlare, se non possiedo il vocabolario, la morfologia e la sintassi di una lingua, non come oggetto da tenere sul tavolo, ma come memoria, conoscenza profonda dei loro elementi, che mi permettono di costruire il discorso. Non esiste valido critico letterario che non abbia letto e studiato la letteratura e la sua storia, così come non esiste storico che non conosca la storia, o filosofo che non conosca la filosofia.

La formazione è dunque acquisizione di competenze, ottenuta, però, mediante selezione e organizzazione di conoscenze. E la scuola è per questo un percorso lungo e difficile, che parte dall’ascolto, si costruisce nella relazione, si fonda sulla comprensione, si rafforza nell’esperienza, per potersi risolvere nell’acquisizione di una consapevolezza critica, che ne è, a mio giudizio, la finalità più alta.

Educare alla libertà

La scuola infatti non deve, come fece quella fascista, costruire una coscienza collettiva, fondata acriticamente sul motto del «Credere, Obbedire, Combattere», ma al contrario stimolare e consolidare lo sviluppo di tante coscienze individuali, capaci, mediante il sapere, di sviluppare una consapevole e autonoma capacità di lettura e interpretazione dell’oggetto della propria indagine, al fine di saper gestire la propria libertà.

Abbiamo combattuto il fascismo e ne respingiamo i modelli di riferimento, proprio perché il fascismo ha formato alla cieca obbedienza, ai falsi valori di una falsa religione, di una falsa famiglia, e di un nazionalismo fatto di persecuzione delle minoranze, delle diversità, delle autonomie e della capacità critica, preludio inevitabile della guerra. Sconfiggerlo ha significato ribaltarne i principi, in nome dei valori fondativi del nostro mondo che sono uguaglianza, fratellanza e libertà, nella consapevolezza che la loro conquista ci impone una dura disciplina, alla quale si giunge mediante una formazione rigorosa, non lassista, un lavoro costante che mai si può interrompere.

Le rane della famosa favola di Esopo non sanno essere libere, chiedono a Giove un re e non si accontentano del re travicello, finché non saranno sbranate dal serpente. E il serpente è sempre in agguato. Gli uomini lo cercano, anche se lo temono, proprio perché essere liberi è un esercizio difficile ed è a questo esercizio che deve educare la scuola.

Un esempio: il lavoro degli studenti della V A del liceo classico dell’ISIS Majorana-Fascitelli di Isernia

In questa prospettiva generale colloco e leggo il volume Via Tasso. La disumanità occultata, a cura di Angelica Zappitelli, con la collaborazione di Valeria Garofalo e interamente realizzato dagli studenti della V A, con la collaborazione mia e di Antonio Parisella, direttore del Museo Storico della Liberazione di via Tasso a Roma. Si è trattato di una presenza mai invasiva e volta a guidare, ma non ad orientare, le scelte degli studenti.

Gli studenti non si sono lasciati trasportare da suggestioni immediate, da facili formule già elaborate da altri, da incontrollate reazioni emotive.

Hanno ascoltato e sono stati ascoltati. Hanno compreso e sono stati compresi. Hanno imparato, hanno letto, hanno studiato. Sono stati interrogati e si sono interrogati. Hanno esaminato e confrontato i documenti, hanno visitato un luogo di memoria, come la prigione di via Tasso a Roma, oggi Museo storico della Liberazione, e si sono confrontati con chi di questo luogo è custode. Hanno saputo gestire i propri silenzi, hanno preso tempo, hanno saputo aspettare, hanno pensato e finalmente hanno scritto, rielaborando in modo autonomo e personale una conoscenza acquisita, tanto rigorosa, quanto letteralmente umana.

Tra i contenuti del libro

Gioacchino Gesmundo, al quale una parte di queste pagine sono dedicate, era un insegnante, un professore di storia e filosofia in un liceo romano. Fu imprigionato per le sue idee, torturato a Roma in via Tasso, poi trucidato alle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944. Aveva solo trentacinque anni. Si definiva un «apostolo della libertà», era cioè convinto che la libertà si potesse in qualche modo insegnare, che alla libertà si potessero educare le nuove generazioni.

Pochi mesi dopo, il 10 agosto, a Milano, il maestro elementare Salvatore Principato, a cinquantadue anni, era fucilato in Piazzale Loreto. Due vite di insegnanti diverse e lontane, ma ugualmente troncate in modo spietato e violento da chi della violenza aveva fatto una ragione morale, da chi credeva che l’iniquità fosse giustizia, che si dovessero uccidere tutti coloro che col solo loro comportamento smascheravano l’ipocrisia sottesa a tutto questo.

L’aspirazione di Gesmundo, così come quella di Principato e di altri, che ho raccontato nel mio libro Insegnare libertà. Storie di maestri antifascisti (Donzelli, 2018), era un’idea di scuola volta a rendere l’uomo capace di pensare in autonomia, oltre i pregiudizi, le demagogie e i populismi, ma al tempo stesso consapevole che tutto questo non è innato nell’uomo, ma si impara, si impara lavorando sul pensiero altrui, con l’aiuto di insegnanti capaci, e mediante un faticoso e lento esercizio critico.

Questa dovrebbe essere la scuola e questa è la scuola che ho trovato in questo libro. Senza questo lavoro di preparazione, perfino l’insegnamento della storia diventa almeno inutile, ma forse addirittura dannoso.

Massimo Castoldi