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Milano, 5 ottobre 2018. Nella serata di giovedì 4 ottobre si è spento a 96 anni monsignor Giovanni Barbareschi, protagonista dell’antifascismo cattolico tra i preti «ribelli per amore», Giusto tra le nazioni e Medaglia d’argento della Resistenza. La camera ardente, in via Statuto 4 a Milano, sarà aperta al pubblico sabato 6 e domenica 7 ottobre dalle 10 alle 18

La Fondazione Memoria della Deportazione lo vuole ricordare, riportando la sua testimonianza su Suor Enrichetta Alfieri tenuta il 22 Aprile 2009, quando Giovanni Barbareschi e Gianfranco Maris, chiusero il Convegno su Le suore e la Resistenza tenutosi all’Ambrosianeum.

Giovanni Barbareschi

Dopo queste testimonianze, vorrei far nascere in ciascuno di voi il proposito di darvi da fare, di intervenire presso le istituzioni civili perché là dove c’è stato un convento, un istituto di religiose che ha fatto qualcosa nella Resistenza e per la Resistenza, quel Comune, quel paese, trovi modo di intitolare una sua strada alle «Suore della Resistenza».

È un modo, forse l’unico, per essere certi che anche fra cinquant’anni si potrà tenere una mattina così, per essere certi che queste vicende, queste persone, non saranno dimenticate.

Don Apeciti mi ha chiesto una testimonianza su suor Enrichetta Alfieri. Cerco di dire qualche parola. La differenza tra me e voi è che voi tutti avete «studiato» la Resistenza, io ho «fatto» la Resistenza e una mattina così mi sconvolge e mi travolge. Ho conosciuto suor Enrichetta quando ero detenuto nel carcere di S. Vittore. Ero stato arrestato per avere aiutato degli ebrei a espatriare in Svizzera, e perché facevo parte della redazione del giornale clandestino «Il Ribelle».

Quando a S. Vittore c’erano gli interrogatori, noi detenuti ne avevamo il terrore, perché erano interrogatori pesanti, duri: spesse volte se ne usciva bastonati, torturati…

Da me volevano sapere come si stampava «Il Ribelle», chi era il tipografo, chi erano gli autori. Ringrazio il Signore di essere riuscito a non parlare, a non rivelare nulla.

Al raggio quinto di S. Vittore eravamo d’accordo tra noi detenuti che quando uno tornava dall’interrogatorio e non aveva parlato, non aveva compromesso nessuno o rivelato nomi, situazioni, episodi, scritti, allora alzava il braccio destro e tutto il raggio quinto capiva che si poteva stare tranquilli, che nessuno correva rischio di essere interrogato o peggio incarcerato per qualcosa che era stato rivelato durante l’interrogatorio.

Quel giorno l’interrogatorio per me era stato un po’ troppo duro e non riuscivo ad alzare il braccio destro. Allora, per farmi capire, cercavo di muovere almeno un dito. La persona che era accanto a me e mi accompagnava sino alla base della scala che mi avrebbe portato alla cella 102 era suor Enrichetta. Lei sapeva del nostro accordo, ma aveva  notato che una guardia fascista ci sorvegliava particolarmente lungo tutto il nostro percorso.

Allora suor Enrichetta ha cercato di alzare il suo braccio al mio posto, perché il raggio sapesse. La guardia fascista ha visto, ed è intervenuta subito chiedendo: «Cosa fa?» E suor Enrichetta, con la sua prontezza: «Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen». E aggiunge: «Tra noi “religiosi” ci salutiamo sempre così…».

La guardia fascista non ha percepito il significato nascosto di quel gesto. I detenuti invece hanno capito, e come risposta ciascuno di loro si è messo a battere con forza il cucchiaio sulla propria gavetta: un concerto meraviglioso… Quel gesto è costato caro: quella sera tutto il raggio quinto, per punizione, è stato privato della misera cena abituale.

Vi saluto anch’io come ha fatto suor Enrichetta: nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito santo.

Gianfranco Maris

Questo incontro è stato definito come “ricerca storica”. E io sono perfettamente d’accordo. Aggiungerei, anzi, una ricerca storica che tutti noi e gli storici stessi, per una molteplicità di ragioni, abbiamo totalmente trascurato per molti anni.

La Resistenza fu certamente un evento quanto mai complesso, nel quale convennero e si intesero, nonostante i diversi retroterra culturali e politici che li caratterizzavano, una molteplicità di forze, di idee e di ideologie, “inquadrate” tutte, comunque, nel tradizionale concetto che qualsiasi evento decisivo ed epocale della storia dei popoli non può essere che armato. Sempre, guerra, rivoluzione, scontro, conflitto, sono stati “grandi eventi” soltanto se “armati”.

Una componente maschilista secolare della cultura di tutti i popoli. Dall’occupazione tedesca e dalla violenza nazista e fascista siamo usciti con questa cultura, per cui la storia è stata solo storia di una Resistenza armata e dei suoi valori, la storia di una minoranza contro i nazisti armati e contro i collaboratori dei nazisti, i fascisti armati, da una parte, ed una zona grigia, ferma, attendista, indifferente, dall’altra parte.

Oggi si comincia a capire che non vi sono state mai zone grigie nella storia dei popoli, soprattutto nella Resistenza. Di questa cosiddetta “massa grigia”, storicamente e politicamente ignorata, fecero parte donne e uomini, non armati, non partecipanti armati allo scontro, ma attivi e presenti, con il loro pensiero, con la loro azione.

Donne e uomini che hanno partecipato al movimento, alla Resistenza per un empito di sentimenti e di valori che intendevano affermare anche senza armi, dando, con ciò, alla Resistenza stessa un contributo rilevantissimo.

Nel maggio scorso il Comitato internazionale di Mauthausen curò presso l’Università di Linz una ricerca sulla deportazione “per ragioni di religione” nei campi di annientamento nazisti di cittadini dei Paesi occupati.

Non, quindi, la deportazione dei “religiosi”, che è un’altra cosa, ma la deportazione di civili per la collocazione assunta da loro nella Resistenza “per ragioni religiose”.

Per quanto riguarda l’Italia, la ricerca è senz’altro di notevole importanza, se si pensa che con noi nei lager entrarono anche don Paolo Liggeri, don Manziana e molti altri religiosi come don Sordo, i quali nella Resistenza avevano operato scelte molto precise “per ragioni religiose”, per valori che ritenevano, in armonia con il proprio pensiero religioso, meritevoli della loro azione e del loro impegno solidale.

È molto importante l’indagine sulla Resistenza non armata per capire veramente che quando si dice “valori della Resistenza trasferiti nella nostra Costituzione”, si parla anche di quei valori, per i quali anche le suore seppero operare scelte coraggiose.

L’ANED, l’associazione nazionale ex deportati, nell’aprile scorso, si è impegnata per ricordare con lapidi poste sui forti di Santa Sofia e di San Leonardo in Verona coloro che, durante l’occupazione nazista, in quei forti furono detenuti, per essere quindi deportati nei campi nazisti in Germania. Questi forti, prima di essere manomessi dai nazisti, erano stati strutture religiose monacali, trasformate in forti del quadrilatero da Massimiliano d’Austria durante l’impero austro-ungarico e per tutto l’800 ebbero quella funzione.

I nazisti li trasformarono in carceri delle SS e di lì passarono i componenti di due successivi Comitati di Liberazione di Verona, trasferiti ed assassinati poi nel campo di Mauthausen e transitarono 23 altri detenuti che furono fucilati nel campo di Bolzano nel settembre del 1944.

Mentre apprestavamo le lapidi commemorative, emerse che in quelle carceri fu detenuta anche una suora delle Carmelitane del Carmelo di Verona, viva ancora oggi.

Non era ancora suora, era una novizia e proveniva da una famiglia che aveva posseduto terreni nella zona.

Dopo l’8 settembre si impegnò, “per ragioni religiose” ad assistere gli ex prigionieri militari inglesi che l’8 settembre aveva disseminato nelle montagne, dopo lo sfascio dei campi di prigionia italiani.

Questa novizia, d’accordo con il suo parroco, si impegnò a dare a questi disperati coperte, rifugio nelle cascine della sua famiglia, cibo e fu arrestata insieme ad altri.

I tedeschi iniziarono a fucilare gli arrestati, ma l’operazione fu interrotta da un ufficiale che fece trasferire quelli ancora vivi nelle carceri dei forti di Santa Sofia e di San Leonardo.

La novizia divenne poi suora e la storia della Resistenza non armata può sicuramente includere anche questa Carmelitana tra i suoi combattenti, perché anche le idee, i convincimenti e la fede sono “armi” con le quali si possono combattere guerre giuste.