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Savona, 1 marzo 2019. Si riporta l’intervento di Floriana Maris, Presidente della Fondazione Memoria della Deportazione alle celebrazioni savonesi dello sciopero generale del 1° marzo 1944.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 Il discorso di Floriana Maris:

Il mio intervento, oggi, qui, in occasione della celebrazione del 75° anniversario dello sciopero generale del 1° marzo 1944 è in veste di testimone, testimone indiretto della deportazione nei campi di sterminio nazisti.

Mio padre, Gianfranco Maris, fu deportato, all’età di 23 anni, nel lager di Mauthausen, ed io sento il dovere di vestire i panni del testimone, seppur indiretto, di quel mondo fuori dal mondo, perché, come scrive Primo Levi: “ciò che è accaduto può ancora succedere, perché ciò che è accaduto fu opera di uomini come noi”.

Ritengo il silenzio colpevole ed offensivo: emargina dal ricordo dei crimini nazisti e fascisti la deportazione dei più di 600mila militari italiani che dopo l’8 settembre 1943 non vollero consegnare le armi ai tedeschi, né prestare giuramento alla RSI di Mussolini,

ritengo colpevole ed offensivo non ricordare la deportazione dei partigiani, combattenti per la libertà, degli oppositori politici;

ritengo colpevole ed offensivo non ricordare la deportazione degli operai, che durante l’occupazione tedesca stupirono il mondo  con scioperi che aggredirono politicamente l’occupante tedesco e il fascismo di Salò (New York Times: “non è mai avvenuto nulla di simile nell’Europa occupata che possa assomigliare alla rivolta degli operai italiani”).

In un Paese messo a ferro e fuoco, in condizioni drammatiche di vita per i bombardamenti e la penuria di viveri, la guerra e le rappresaglie, i lavoratori delle fabbriche del triangolo industriale (Lombardia, Piemonte e Liguria), ai quali si unirono anche gli operai del Veneto e dell’Emilia, proclamarono lo sciopero generale per otto giorni, dal 1° all’8 marzo 1944 per chiedere la fine della guerra e delle torture, la pace e la liberazione dei prigionieri.

Lo sciopero da rivendicazioni molto semplici, molto elementari volte a migliorare la drammatica condizione operaia di quegli anni (pane e salari più giusti) diventò politico , politiche furono le parole d’ordine contro la guerra, contro i tedeschi e i fascisti, contro la loro presenza nelle fabbriche e nelle città.

Lo sciopero come arma di guerra” si legge nell’appassionato appello del CNL – Liguria.

Si realizzò accanto alle formazioni partigiane la presenza organica della fabbrica, la forte connessione tra momento politico/militare e momento sociale.

I lavoratori furono consapevoli di sfidare pericoli gravissimi e pagarono con la deportazione uno dei prezzi più alti di tutta la guerra di liberazione.

I 36mila morti partigiani ed operai, ammazzati nei campi di sterminio nazisti non sono, come certo revisionismo storico o con la negazione pura e semplice dei crimini nazisti o con la loro minimizzazione vorrebbe insinuare, un dato residuale di una guerra civile, ma sono l’elemento fondante della nostra Costituzione e della nostra Repubblica. (Calamandrei nel suo discorso sulla Costituzione, pronunciato il 26 gennaio 1955 ad un gruppo di studenti universitari, dice: “quanto sangue e quanto dolore per arrivare a questa Costituzione! Dietro a ogni articolo  di questa Costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi, caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa carta. Questa non è una carta morta, questo è un testamento di 100.000 morti, se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati, dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero perché lì è nata la nostra Costituzione).

Sono particolarmente orgogliosa di essere qui oggi anche perché io sono legata a questa terra, la Liguria: mia madre è nata a Genova e con mia nonna era sfollata durante la guerra a Finale Ligure e sia mio nonno materno che il mio bisnonno, il padre di mia mamma,  erano lavoratori portuali al porto di Genova: antifascisti.

Dei deportati dalla Liguria (1041, ritornati dal lager solo 247) ho conosciuto “Tunitto”, Antonio Arnaldi, arrestato a soli 19 anni, operaio alla Piaggio, lo ricordo quando incontrava mio padre a Finale, lungo la passeggiata delle palme (accadeva spesso quando eravamo a Finale in vacanza).

Ricordo la felicità nei loro occhi per aver ritrovato un compagno. Poche le loro parole, tutto in quegli sguardi intensi che avevano visto, giovanissimi, tutto l’orrore del mondo.

L’esperienza del campo accomuna e lega per la vita, è una memoria indelebile.

Come vi ho detto, sono qui in veste di testimone dell’esperienza concentrazionaria di mio padre.

Mio padre non era un operaio ma un partigiano, comandante di una delle Brigate Garibaldi in Val Brembana.

Il 20 gennaio 1944 fu fermato e arrestato alla stazione di Lecco con una borsa piena di armi, dopo estenuanti interrogatori, venne condannato a morte, condanna che fu commutata nella condanna a morte per fame, freddo, sevizie, lavoro schiavo nel campo di annientamento di Mauthausen.

Aveva scelto la via della montagna e della Resistenza armata dopo due anni trascorsi nei Balcani al comando del 122 reggimento Macerata in una  assurda e barbara guerra di occupazione voluta dal regime fascista.

Dopo l’8 settembre con l’armistizio e l’esercito sabaudo allo sbando, riportò i suoi uomini in territorio italiano dove lì si dispersero.

Fece ritorno a Milano dove prese contatto con gli esponenti del Partito Comunista italiano clandestino a cui si era iscritto all’età di 17 anni.

La sua scelta era stata determinata  da tre precisi episodi: da bambino aveva assistito ad una azione squadrista contro suo padre, repubblicano e  mazziniano, iscritto al gruppo Stato Libero.

Da ragazzo, poi, aveva visto picchiare selvaggiamente un  vecchio colpevole di avere fatto pipì contro il muro dell’edificio rionale fascista, intervenuto in sua difesa, era stato fermato e a sua volta picchiato selvaggiamente; da liceale, al terzo anno di liceo classico, aveva, una mattina del novembre 1938, assistito al congedo del supplente di greco e latino che aveva salutato i propri alunni dicendo: “io non ho diritto di insegnare a voi, perché siete superiori a me che appartengo ad una comunità inferiore alla vostra”.

Era ebreo. Le leggi razziali, o come oggi vengono più precisamente definite razziste (Liliana Segre), avevano decretato la sua espulsione dall’insegnamento .

Scrive mio padre nel suo libro “Per ogni pidocchio cinque bastonate” – la punizione che i nazisti infliggevano ai deportati che, costretti a vivere nella sporcizia, nella promiscuità nel freddo e nella fame, non avevano con cura ispezionato gli stracci che li ricoprivano lasciando che qualche pidocchio vi si annidasse – “la mia generazione ha vissuto tutto questo: la dittatura, i soprusi, le violenze, la guerra. Diventare comunisti, per molti di noi, fu una scelta di dignità, di libertà culturale, di giustizia”.

Mauthausen, in questo campo di fame, di violenza e di morte, dove il prigioniero era privato della propria personalità e dell’umanità, definito “stück”, pezzo del prodotto, cosa, condizionato alla obbedienza assoluta, dove si rimaneva vivi solo se in grado di lavorare, mio padre arrivò la notte del 7 agosto 1944, dopo due giorni di viaggio senza sosta in carri bestiame dove erano stati stipati all’inverosimile 290 prigionieri.

Nel trasporto si trovavano anche un vecchio operaio della Breda che aveva partecipato agli scioperi, un partigiano che aveva perso una gamba in una azione partigiana, un altro partigiano costretto in un busto di gesso per una ferita alla spina dorsale ed un prete di Bologna carico di anni.

Tutti i duecentonovanta prigionieri furono fatti salire a botte, urla, calci, latrati di cane lupo dalla stazione alla fortezza/castello di Mauthausen, che incombeva nella notte con le sue grandi muraglie di pietra, le torrette di guardia, il filo spinato sulla sommità delle mura di cinta e tutti furono denudati di tutto, condotti alle docce: acqua gelata, niente sapone, niente asciugamano, rasatura dei capelli, ispezione caporale.

Al ritorno dalle docce si accorsero che insieme a loro non vi erano più il vecchio operaio, i due partigiani, quello con il busto e quello senza una gamba ed il vecchio prete di Bologna.

Nella confusione di quei momenti li avevano persi di vista, dove erano stati portati?

Alcuni vecchi detenuti del campo ai quali fu chiesto, con tutte le difficoltà della lingua, dove potessero essere stati condotti, indicarono il fumo della ciminiera:  la prima selezione del campo  era stata eseguita.

Mauthausen significava questo, l’eliminazione dei non idonei al lavoro all’arrivo nel campo; le eliminazioni periodiche secondo la legge fondamentale del campo: chi perde la capacità di lavoro, perde anche il diritto alla vita.

Una delle ultime selezioni a Mauthausen fu fatta il 22 aprile 1945 sulla piazza dell’appello: 800 deportati tutti insieme in quella sola notte, furono gasati in una baracca del campo.

Il 25 aprile, 3 giorni dopo, veniva liberata con l’insurrezione  Milano, era  già stata liberata Genova, erano state liberate altre città e a Mauthausen eliminavano ancora con il lavoro schiavo, con il gas, con la puntura al cuore.

Mauthausen più che un campo di lavoro fu un campo di morte.

Nel campo per tutto il mese di aprile erano andati affluendo, da tutti gli altri campi evacuati per l’arrivo dell’Armata Rossa da nord e degli alleati da sud  , con spietate marce forzate, “le marce della morte”, colonne di prigionieri affamati ed esausti, assassinati nel momento stesso in cui il loro  passo si era fermato per lo sfinimento.

Nel campo per tutto il mese di aprile le camere a gas funzionarono ogni giorno! Il 2 maggio furono gasati anche i “portatori di segreti”, quelli che avevano lavorato nelle camere a gas, con loro furono bruciati i documenti e le SS fuggirono.

Il campo fu liberato dagli alleati il 5 maggio 1945.

Tutti gli operai arrestati in Italia durante l’occupazione nazista, considerati nemici del nazismo per i loro scioperi organizzati contro la guerra, furono deportati pressoché esclusivamente a Mauthausen, campo di terzo livello come Auschwitz-Birkenau, destinato ai detenuti “oppositori non rieducabili” che mai avrebbero potuto essere liberati.

Mauthausen fu il campo della deportazione politica, dal quale nessuno doveva uscire vivo.

Ma mio padre più che la memoria del suo singolo dolore e della sua sofferenza, ha lasciato nei suoi scritti, nei suoi interventi, nel suo libro sui suoi giorni a Mauthausen, la memoria della finalità della lotta, sua e di quanti come lui furono deportati per la loro battaglia contro il fascismo ed il nazismo. La memoria delle ragioni storiche della deportazione: l’opposizione  armata e quella sociale e civile contro le prospettive della guerra fascista e nazista che erano quelle di creare un ordine nuovo europeo fondato sulla prepotenza, sulla ricchezza, sul privilegio, sulla supremazia di chi possedeva nei confronti di chi soltanto viveva lavorando, sul razzismo, sulle disuguaglianze.

Diceva: “noi, i deportati politici, vogliamo che si capisca che noi proiettavamo nel futuro la costruzione di una società democratica nella quale finalmente fosse realizzato quello che non era mai stato realizzato prima, cioè la partecipazione delle classi popolari alla costruzione di una società democratica”  ed aggiungeva “non è vero che “Arbeit macht frei”, non è vero che il lavoro rende liberi, è la conoscenza: ecco perché noi vogliamo che la nostra memoria sia per tutti conoscenza, per essere liberi e per costruire una società amministrata”.

La memoria come conoscenza, come strumento di riflessione, di comprensione del presente.

La memoria come cosa viva per anticipare il futuro.

La celebrazione di oggi, del 75°  anniversario degli scioperi del marzo ‘44, non soltanto ricorda ed onora i caduti, ma ci apre alla comprensione dei fatti e dei mutamenti che avvengono nel nostro Paese, in Europa, nel mondo.

Un popolo senza memoria è destinato a non avere un futuro.